Il racconto di un viaggio infinito – e favoloso – lungo la storica ferrovia della costa orientale del Madagascar. Costruita in epoca coloniale e mantenuta in vita dai suoi lavoratori e passeggeri, la ferrovia Fianarantsoa-Côte Est collega gli altopiani centrali della Grande Isola all’Oceano Indiano. Un tragitto mozzafiato che mette in comunicazione piccoli villaggi sperduti nella foresta tropicale
di Marco Trovato (direttore editoriale della Rivista Africa)
La stazione di Fianarantsoa sembra un’astronave atterrata su un pianeta alieno. Il suo tetto spiovente ricorda vagamente una pagoda cinese, mentre gli infissi delle finestre e i camini di mattonelle richiamano una casa tirolese. L’aspetto dell’edificio è ordinato e massiccio: nulla a che vedere con la precarietà dei fabbricati che la circondano, malconci cimeli coloniali rabberciati con lamiere arrugginite.
Un buon inizio
Il grande orologio sulla facciata color sabbia spacca il secondo, solerti netturbini spazzolano il marciapiede all’ingresso, nugoli di facchini spingono i bagagli impilati sui loro carrelli. L’aria di efficienza e di rigore svanisce non appena si varca il portone d’entrata. Il salone della biglietteria è una bolgia: centinaia di persone si accalcano agli sportelli, sgomitano per raggiungere l’inizio della fila, destreggiandosi tra pacchi, bauli, galline legate e oche starnazzanti. «È un buon indizio. In genere qui non c’è nessuno, è toujours fermé, “sempre chiuso”», fa presente il tassista che mi ha scaricato nell’androne. «La folla sta a significare che l’incerta corsa settimanale del treno è stata confermata». Una lavagna nera rende noti i prezzi dei biglietti (centomila ariary, circa 30 euro, per l’intero tragitto in prima classe, meno della metà per la seconda) e l’orario di partenza (7:30), mentre quello di arrivo è stato cancellato e riscritto con il gessetto un’infinità di volte, al punto da risultare illeggibile. Inutile cercare informazioni in giro: ognuno risponde cose diverse. «Dieci ore di viaggio», azzarda uno. «Dodici», rincara l’altro. «Tra le sette e le nove ore», non si sbilancia il terzo. Sembra una cabala. La giovane donna alla biglietteria, interpellata, alza le spalle in cerca di comprensione, se la cava con un sorriso di circostanza e quasi a volersi scusare mi allunga una bottiglia d’acqua fresca, il tagliando del viaggio e, come resto, una mazzetta enorme di banconote logore. «Sono tutte di piccolo taglio», mi dice con fare premuroso. «Le serviranno durante il tragitto».

Importanza vitale
La ferrovia Fianarantsoa-Côte Est (Fce) collega una delle città più importanti del Madagascar, Fiana, come viene chiamato il capoluogo regionale degli altopiani centrali, alla costa orientale dell’isola, più precisamente al porto marittimo di Manakara. La linea, 163 chilometri, fu costruita a partire dal 1926 dai coloni francesi. Il primo tratto costiero venne terminato in cinque anni, ma l’intera strada ferrata entrò in servizio solo nel 1936. I progettisti ebbero un gran da fare per trovare le soluzioni ingegneristiche che consentissero ai convogli di arrampicarsi lungo i costoni dell’altopiano. Bisognava sormontare 1.200 metri di dislivello in un territorio impervio, scosceso, avvolto dalla foresta tropicale.
Nei cantieri furono impiegati migliaia di indigeni, immigrati asiatici e detenuti costretti ai lavori forzati. A colpi di asce e di machete i manovali abbatterono gli alberi e penetrarono nella selva. Trasportarono sulle loro spalle tonnellate di sassi e pietrisco per realizzare la massicciata. Posarono una ad una le traversine, perforarono le pareti rocciose con quarantotto gallerie, superarono i dirupi con sessantasette ponti. Realizzarono un’opera audace che celebrava le ambizioni e la grandeur dell’impero coloniale francese. Il materiale rotabile proveniva dalle ferrovie retiche e transalpine. Per lungo tempo sui suoi vagoni viaggiarono spezie (vaniglia, cannella, pepe, chiodi di garofano), riso e caffè nonché decine di migliaia di piccoli coltivatori bisognosi di un mezzo di trasporto economico.
Negli ultimi trent’anni il tracciato è stato più volte interrotto da smottamenti causati da piogge torrenziali e dai cicloni abbattutisi sulla costa orientale. È sempre tornato in funzione grazie all’ostinata volontà dei dipendenti della “Compagnie du chemin de fer Fce” e al fondamentale aiuto della popolazione locale, disseminata lungo diciassette stazioni, per le quali la ferrovia riveste un ruolo di comunicazione vitale, che ha sostenuto finanziariamente la manutenzione e partecipato ai lavori di ripristino.
«In carrozza!»
Il convoglio in partenza è quasi al completo, drappelli di giovani indugiano sulla banchina per scattarsi foto coi cellulari, arrivano di corsa gli ultimi ritardatari. In prima classe ha preso posto una mezza dozzina di turisti europei: indossano t-shirt, pantaloncini, infradito. I passeggeri locali sono imbacuccati in felpe, sciarpe, calzettoni e berretti pesanti. Chissà chi ha sbagliato. La locomotiva a gasolio sbuffa nuvole grigie. Il capotreno fischia impaziente. Uno scossone, le ruote cigolano: ci muoviamo. Il vecchio telaio sembra gemere per lo sforzo di doversi rimettere in moto. Ai lati dei binari un cordone di persone saluta il treno, che ricambia con prolungati colpi di tromba. Passa il controllore, un uomo paffuto, impettito nella divisa troppo stretta per la sua stazza. Controlla i titoli di viaggio e i documenti personali. È scortato da sei poliziotti armati di kalashnikov. «Non c’è nulla da temere», si affretta a rassicurare i passeggeri occidentali di cui evidentemente ha letto lo sguardo interrogativo. «Le forze dell’ordine viaggiano con noi per prevenire problemi, scoraggiare i ladri, impedire assalti di banditi. Tranquilli, godetevi il viaggio».
La seconda classe è talmente affollata che non c’è spazio per muoversi. Famiglie, borse e scatoloni sono incastrati come pezzi di un puzzle. Tra le panche di legno è un intrico di corpi intrappolati, gambe incrociate, gomiti conficcati sui fianchi del vicino, sguardi pazienti e rassegnati. Non va meglio a chi – per risparmiare – ha trovato posto sui vagoni merci o peggio a chi viaggia avvinghiato sul predellino, in bilico fuori dalle carrozze, esposto al freddo e ai capricci del tempo. Nubi nere, pesanti, minacciano pioggia.
Primo stop
Le rotaie s’infilano in uno stretto nastro di terra che serpeggia tra baracche e risaie. Siamo alla periferia di Fiana. Il treno rallenta, si ferma ad una stazione nei sobborghi della città. E non riparte più. Abbiamo percorso, sì e no, un paio di chilometri. Non si capisce cosa sia accaduto. Un guasto al motore? Problemi sulla linea? Nessuno dei ferrovieri si preoccupa di informare i viaggiatori. Dopo un’ora di immobilità, tutti scendono dai vagoni. Tra i malgasci non c’è traccia di lagnanze, rabbia o preoccupazioni. Gli unici a scalpitare nervosi sono i turisti bianchi. «Ce n’est pas possible!», scuotono la testa.
Passa il tempo, l’inerzia prosegue. Accanto a me una donnona straripante che sfoggia un elegante cappello di paglia ne approfitta per fare colazione. Dalla sporta tira fuori un cartoccio fumante di cosce di gallina: le sgranocchia con avidità fino a ripulire il più piccolo osso. Non soddisfatta, trangugia un sandwich ripieno di verdura e maionese lungo come il suo braccio. Per finire, divora una vaschetta di noodles che emanano nello scompartimento fumi speziati. Per dissetarsi, si scola una bottiglia marrognola: è la tradizionale bevanda malgascia ottenuta facendo bollire dell’acqua sul fondo di una pentola su cui è rimasta appiccicata una crosta di riso.
Avanti, piano
La situazione fuori sembra sbloccarsi. Da un magazzino ferroviario spuntano trafelati due operai che trasportano un’enorme bombola grigia, come quelle usate dai giostrai per gonfiare i palloncini per i bambini. La caricano su un vagone merci. Inutile chiedersi a cosa serva, dove sia diretta. Il fischio del macchinista invita tutti a risalire. Partono gli applausi. Si torna in movimento. Il sole buca le nuvole. La strada statale che affiancava finora la ferrovia prosegue dritta sull’altopiano, mentre i binari piegano a destra, si abbassano, seguono il pendio, sembrano precipitare nell’abisso. Il tracciato in declivio diventa una china vertiginosa con pendenze che superano il 35%. I freni stridono, crepitano, sfrigolano. Finiamo inghiottiti dalla foresta.
Dai finestrini aperti s’infilano rami, arbusti, foglie. Al nostro passaggio ondeggiano piante di ananas selvatico, fluttuano liane e felci giganti. Entriamo in tunnel tenebrosi. In prima classe si accende la luce tremolante di un flebile neon, gli altri scompartimenti piombano nel buio più assoluto. Quando usciamo dalla galleria siamo nuovamente avvolti dalle nuvole. Sfioriamo burroni e cascate, superiamo viadotti sospesi nel vuoto. Attraversiamo un territorio incontaminato e remoto. Incrociamo solo un paio di boscaioli e pastori solitari. Non c’è traccia di connessione per i telefoni. Ci fermiamo in continuazione e non si capisce il motivo. Una sosta ogni pochi metri in mezzo alla boscaglia: forse per spostare un ramo caduto sulla massicciata, o per far riposare i freni esausti, o per attendere il passaggio di uno zebù che intralcia il transito.
Proseguiamo piano, pianissimo. I passeggeri che viaggiano sul predellino del treno ne approfittano per scendere e sgranchirsi le ossa. Fanno quattro passi e risalgono a bordo. Li vedo superarci, fuori dal finestrino, mentre camminano tra i binari e la selva.
Nessuna fretta
A bordo del treno, gli altri viaggiatori sono sprofondati in uno stato di apatia e di semincoscienza. Decine di teste ciondolano, sincronizzate, seguendo il movimento delle carrozze. A risvegliare tutti ci pensano i venditori che strepitano ogniqualvolta il convoglio raggiunge una stazione. Offrono bevande fresche, dolci, pollo fritto, caschi di banane, uova sode, salsicce, involtini di patate dolci. La contrattazione sui prezzi avviene dai finestrini, tra urla concitate e banconote sdrucite che passano da una mano all’altra. L’intera popolazione di questi minuscoli villaggi persi nel nulla si riversa lungo i binari.
L’arrivo del treno è un evento elettrizzante, l’unico capace di rompere la monotonia di giornate sempre uguali. La durata delle soste è indefinita, talvolta può protrarsi ben oltre l’ora: il tempo necessario per scaricare e caricare la merce. O per staccare dal convoglio i vagoni svuotati, che saranno recuperati al passaggio successivo del treno. I lavori vanno a rilento. Nessuno – tranne lo sparuto gruppo di bianchi – mostra di aver fretta. Ferrovieri, passeggeri e villeggianti approfittano delle fermate per aggiornarsi sulle novità e scambiare due chiacchiere con gli amici e i famigliari.
L’ultima fermata
Quasi controvoglia il treno riprende il suo cammino. Il sole è tramontato, l’aria umida e fredda penetra nei pertugi delle vetture. I turisti hanno l’aria esausta e intirizzita. Siamo scesi parecchio di altitudine, ora la pendenza del tracciato si addolcisce. Il convoglio accelera, ma non troppo perché i vagoni ondeggiano come una barca in alto mare e nelle curve si inclinano paurosamente di lato.
Piomba l’oscurità. Il faro della locomotiva illumina il corridoio vegetale in cui ci infiliamo mentre la sirena del macchinista squarcia un silenzio irreale. È notte fonda quando arriviamo a Sahasinaka, la nostra ultima fermata. «Il treno non può proseguire oltre», avverte un militare a bordo, «perché qualche giorno fa un convoglio è deragliato rendendo inagibile l’ultimo tratto di ferrovia». Il nostro viaggio termina qui: in diciassette ore abbiamo percorso un centinaio di chilometri. In pratica, senza considerare le soste, abbiamo mantenuto una velocità di crociera di sei chilometri orari. Un’eternità. La nostra “corsa” (si fa per dire) termina in una stazione sperduta nel bel mezzo della foresta tropicale. Quindici chilometri di pista fangosa ci separano dalla prima strada. I turisti scaricano contrariati i propri bagagli e spariscono mugugnando nella notte.
«Veloma!». “Arrivederci!”, li saluta radioso il capotreno. Non c’è traccia di imbarazzo nelle sue parole. Solo orgoglio, fierezza, e quel pizzico di baldanza di chi sa di aver portato a termine con successo la propria missione.