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03/11/2025

Redazione

Algeria, sulle tracce del silenzio nel Sahara dei Tuareg

Nel Sahara algerino, tra canyon di pietra e silenzi infiniti, un viaggio insieme ad Ahmed, guida tuareg dal sorriso enigmatico, diventa un’immersione nel tempo sospeso del deserto. Tra incisioni rupestri, riti del tè e notti sotto le stelle, il racconto svela la poesia di un popolo nomade che resiste, e la fragile libertà di chi impara ad ascoltare il silenzio

di Marco Trovato (direttore editoriale della Rivista Africa)

 

Abbiamo riempito il serbatoio, caricato provviste e stipato di scatole, sacchi, bagagli e pentole ogni angolo dell’auto. Eppure, qualcosa manca. Da mezz’ora vaghiamo di bottega in bottega alla ricerca di un oggetto misterioso e apparentemente indispensabile, ma altrettanto introvabile. Non ho nemmeno tentato di chiedere ulteriori dettagli. Ahmed, la nostra guida tuareg, è immerso in una girandola di conversazioni al telefono – lo smartphone tenuto fermo all’orecchio con il turbante per avere le mani libere sul volante – rendendo impossibile qualsiasi dialogo.
Non che fare domande servirebbe a molto: le sue risposte, quando arrivano, sono enigmatiche e sfuggenti.

Ieri, al nostro primo incontro in aeroporto, gli ho mostrato l’itinerario concordato con l’agenzia. Ahmed ha osservato il foglio con aria riflessiva, strizzando gli occhi sui giorni e gli orari delle tappe. Dopo una lunga pausa, ha decretato con un sorriso appena accennato: «Inshallah». Se Dio vuole. In quell’istante ho capito che insistere o discutere sarebbe stato inutile. Ho piegato il foglio e l’ho infilato in tasca, consapevole che non l’avrei più consultato.
Per una settimana, nel cuore del Sahara algerino, sarei stato completamente nelle mani di quest’uomo di poche parole e dai modi gentili, di età indecifrabile. Avrebbe deciso Ahmed quando partire, dove fermarsi e cosa fare ogni giorno. Il programma non sarebbe stato altro che lui. E così è stato.

Verso il Tadrart Acacus

Lasciamo Djanet, la perla del Tassili, diretti verso sud-est, in direzione della Libia e del Niger. Il paesaggio muta in fretta: le palme e le auto dell’oasi cedono il passo ad acacie spinose e a dromedari dal profilo scheletrico. Chilometro dopo chilometro, anche il traffico si fa rarefatto, fino a svanire del tutto. Solo di rado incrociamo una jeep che viaggia nella direzione opposta.
La scena si ripete invariata: Ahmed e l’altro conducente, sempre un Tuareg, accostano i finestrini e, dopo un saluto caloroso, si immergono in lunghe conversazioni. Parlano con calma, indifferenti alla nostra presenza, come se il tempo scorresse secondo regole diverse.

Il tamasheq, la lingua dei Tuareg, è un susseguirsi di suoni gutturali e graffianti, quasi ipnotici: eccitanti per chi li pronuncia, soporiferi per chi non ne coglie il senso. Lasciata l’asfaltata, imbocchiamo una pista rossa seguendo le tracce degli pneumatici e ci addentriamo nel cuore del viaggio: il massiccio del Tadrart Acacus. Il paesaggio si trasforma in un labirinto minerale, scolpito nei millenni dal vento e dal sole. Attraversiamo letti di fiumi prosciugati che serpeggiano tra canyon maestosi, sorvegliati da pinnacoli e torri di pietra. È una bellezza assoluta, che toglie il fiato e incute rispetto. Siamo in un mondo a parte, distanti centinaia di chilometri dal primo centro abitato, senza segnale telefonico né connessione internet. Ci avvolge una sensazione nuova – insieme euforica e inquietante – di isolamento totale. Siamo nelle mani di Ahmed, figlio del deserto, e tanto ci basta.

Rocce che parlano

Ahmed non ha bisogno di GPS per orientarsi: conosce ogni anfratto di queste falesie, ogni gola nascosta, ogni oued sabbioso. Di tanto in tanto arresta il fuoristrada e ci invita a scendere. «Il y a quelque chose à voir», dice con tono pacato. Ogni tappa è una rivelazione: pozze d’acqua incastonate tra le scarpate, cattedrali di pietra coronate da guglie scolpite dal vento, e soprattutto grotte e ripari naturali.

Qui si cela la più straordinaria collezione di arte rupestre del Sahara, un dialogo millenario tra l’uomo e il deserto. Sulle pareti affiorano incisioni e pitture che raccontano un’epoca in cui il Sahara era verde, rigoglioso, popolato di vita. Scene di caccia, mandrie di buoi dalle lunghe corna, giraffe, elefanti, struzzi, rinoceronti, leoni. Figure umane danzano, suonano, celebrano riti. Ahmed, musulmano osservante ma di grande apertura, ci guida tra queste testimonianze con naturalezza. Non mostra imbarazzo né stupore: per lui sono frammenti di una memoria antica, tracce dei suoi antenati, risalenti fino al 12.000 a.C., un patrimonio che il deserto custodisce come un segreto sacro.

Senza fretta

Le giornate nel Tadrart sono scandite dalle visite ai siti rupestri, dai pranzi all’ombra di un albero solitario e dalle soste decise da Ahmed, sempre imprevedibili. Tra le più frequenti: la raccolta del legname per il fuoco, le preghiere rituali e, immancabile, il rito del tè. Preparare il tè è un’arte. Ahmed vi si dedica con lentezza e precisione, in una danza di travasi e assaggi fino a ottenere la schiuma perfetta.

Tre tazze, tre significati: la prima amara come la vita, la seconda dolce come l’amore, la terza soave come la morte. «Voi bianchi avete l’orologio», dice, «noi abbiamo il tempo». Ogni volta che ci fermiamo, Ahmed si allontana per ammirare il paesaggio in solitudine. Lo osservo, immobile, con lo sguardo fisso sulle dune che si dissolvono all’orizzonte. In quei momenti sembra rapito da un’estasi silenziosa. Poi, quasi a rompere l’incanto, estrae il cellulare e scatta foto a raffica. «Non le pubblico sui social», spiega. «Mi servono per non dimenticare. Quando torno in città, mi manca tutto questo».

Signori del Sahara

I suoi antenati solcavano il deserto come marinai di un oceano senz’acqua, guidando carovane di dromedari lungo le vie che collegavano il Maghreb all’Africa nera. Trasportavano oro, sale, spezie, stoffe e avorio, e la notte si orientavano con le stelle. Ma i tempi sono cambiati. Le frontiere imposte dal colonialismo hanno spezzato il loro mondo come un mosaico frantumato. Le siccità, le carestie e la modernità hanno eroso la loro economia pastorale. Oggi, le antiche carovane sono sostituite dai convogli di camion, e molti Tuareg si sono adattati a nuove occupazioni. Ahmed ha fatto il meccanico, il contadino e il poliziotto, ma non ha mai smesso di sentirsi nomade. «Alla fine ho mollato tutto», confessa al tramonto. «Mi sembrava di soffocare. Qui sono tornato a respirare». Il silenzio del deserto è così denso da farsi sostanza: ti avvolge, ti penetra, ti rivela a te stesso.

Tè e narghilè

Il chèche, la lunga fascia di cotone che i Tuareg avvolgono sul capo, è il suo tratto distintivo. Ahmed ne ha una collezione: gialli, verdi, bianchi, blu indaco. Ogni mattina cambia colore, come se assumesse una nuova identità. Solo la scia del suo profumo, dolce e persistente, rivela che è sempre lui. La sera, senza il turbante, appare più giovane, quasi vulnerabile. È un’immagine rara, spoglia di ogni mito. Ma forse proprio per questo, più vera.

L’ultima notte nel deserto, dopo la zuppa bollente, Ahmed annuncia che è il suo quarantesimo compleanno. Tira fuori dal bagaglio un narghilè d’ottone, lucidato con cura. Mentre prepara il tabacco alla menta, capisco finalmente quale fosse l’oggetto misterioso che cercava prima di partire.
Inspirava lentamente, lasciando che il gorgoglio dell’acqua si mescolasse al crepitio del fuoco. Il fumo profumato si dissolveva nell’aria fredda, e lui taceva. Non per malinconia, ma per la consapevolezza che il nostro viaggio stava finendo. Il deserto, quella notte, ci avvolse nel suo silenzio assoluto. Un silenzio che non separa, ma unisce. Come un ultimo respiro condiviso, nel mezzo dell’eternità.

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