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06/08/2025

Tanzania. A bordo del Liemba, ultima regina d’Africa

In viaggio sulla motonave Liemba nel cuore dell’Africa. È il più antico traghetto del mondo ancora in funzione. Un cimelio coloniale tedesco, affondato durante la prima guerra mondiale, recuperato dai britannici e mantenuto in attività dai tanzaniani. Da quasi un secolo solca le acque del lago Tanganica.

 

di Marco Trovato (direttore editoriale della Rivista Africa)

 

La notte ha inghiottito il Tanganica: ondeggiamo nel buio assoluto. I motori del battello si sono fermati, le eliche hanno smesso di schiumare, i fumaioli non sbuffano più dense nubi velenose. Lo sciabordio monotono dello scafo ha lasciato il posto a un silenzio inquietante. Il Liemba sembra sospeso nel nulla.
All’improvviso due colpi di sirena squarciano l’aria e una lama di luce fende l’oscurità che avvolge il lago. Davanti ai nostri occhi si materializzano una decina di piroghe gremite di gente sbraitante. Sono lanciate a tutta velocità verso di noi, un turbinio di pagaiate furibonde, fanno a gara per superarsi come se stessero partecipando a una regata. Ancor prima di raggiungerci, gli uomini a bordo scagliano delle corde di ancoraggio e saltano nel vuoto, tentando di aggrapparsi ai fianchi della nave. Qualcuno finisce in acqua. Da ogni parte si levano urla, imprecazioni e insulti rabbiosi. Sembra la scena di un arrembaggio.

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Scene da film
«Tranquillo, è tutta gente pacifica», mi rassicura un tizio in canottiera e braghe mimetiche, impegnato a stringere le cime che piovono sul ponte. «Siamo arrivati al piccolo villaggio di Kibwesa. Qui non c’è il molo per attraccare, abbiamo gettato l’ancora a circa duecento metri dalla riva. Appena siamo stati avvistati, l’intero paese si è precipitato in acqua. Nessuno vuole perdere l’appuntamento settimanale con il Liemba».
I passeggeri salgono e scendono dalla nave passando da un portellone laterale affiancato dalle piroghe. Nell’oscurità si intravvedono schiere di persone – tra cui vecchi, disabili e donne coi bimbi avvinghiati sulle schiene – costrette a trasbordare in precario equilibrio tra i flutti minacciosi. A poca distanza, nel cerchio di luce proiettato sul lago, alcuni barcaioli improvvisano un mercato galleggiante. È tutto uno sventolio di pesci barbigli, caschi di banane, scimmie abbrustolite, galline terrorizzate, mazzi di soldi che passano di mano in mano… Un caotico intreccio di commerci e trattative che infiammano la folla affacciata al parapetto del traghetto.
A prua nel frattempo sono iniziate le operazioni di carico e scarico delle merci. Un braccio meccanico preleva dalle canoe i pacchi più ingombranti mentre schiere di giovani muscolosi, piegati dai fardelli che portano sulle spalle, si fanno strada a spintoni e irrompono sulla nave. Il ponte principale viene invaso da sacchi di sardine, taniche di olio di palma, fascine di legna, piante tropicali, cesti di vimini: una valanga di uomini e mercanzie che travolge ogni cosa, seminando confusione e nervosismo. A tenere sotto controllo la situazione ci pensa un giovane ufficiale dallo sguardo imperturbabile che sta in piedi accanto al boccaporto. Si chiama Leonard Watson, ha il compito di annotare sul suo registro tutto ciò che scompare nella pancia, apparentemente insaziabile, del Liemba. «Alla fine del viaggio avremo stivato duecento tonnellate di carico», dice con soddisfazione. «Senza contare i quasi seicento passeggeri coi loro bagagli… Mica male per un battello che tra poco festeggerà un secolo di vita!».

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L’odissea del traghetto
L’orgoglio del marinaio è quanto mai giustificato: dopo novantasette anni di onorato servizio, il Liemba può fregiarsi di essere il più longevo traghetto del mondo ancora in attività. Fu l’imperatore tedesco Guglielmo II a ordinarne la costruzione nel lontano 1913: al Kaiser serviva una nave che pattugliasse il lago Tanganica, avamposto commerciale e militare delle colonie germaniche. Dieci mesi dopo i cantieri navali Meyer Werft di Papenburg diedero alla luce un gioiello d’ingegneria nautica di 1500 tonnellate, 70 metri di lunghezza e 10 di larghezza. Fu chiamato Graf Von Gotzen, in onore a un ex governatore dell’Africa Orientale Tedesca.
Il battello fu smontato in ogni sua parte, ridotto a un puzzle di cinquemila pezzi d’acciaio, e trasferito con un mercantile al porto di Dar es Salaam. Qui venne caricato su un treno e trasportato per 1250 chilometri fino alla città di Kigoma sulle sponde del lago, dove arrivò alla vigilia della prima guerra mondiale. Riassemblato a tempo di record, il vaporetto venne equipaggiato con mitragliatori e cannoni di grosso calibro per fronteggiare gli eserciti britannico e belga che stringevano in una morsa le truppe tedesche. Nel giugno del 1916 fu colpito da una bomba e un mese dopo, il suo capitano, ormai costretto alla resa, decise di affondarlo per non farlo cadere in mani nemiche. Il Graf Von Gotzen sparì nelle acque del Tanganica. Ma nel marzo del 1924 i britannici riuscirono a recuperarlo e a rimetterlo in funzione. Lo ribattezzarono con il nome di MV Liemba: così gli indigeni chiamavano il lago che aveva cullato – e custodito – il prezioso relitto.

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Una storia senza fine
Una storia incredibile che ha ispirato il celebre film d’avventura La regina d’Africa (tratto dal romanzo omonimo di Cecil S. Forester), diretto nel 1951 da John Huston e interpretato da Humphrey Bogart e Katharine Hepburn. Ma l’odissea del battello non si è conclusa come aveva previsto la fantasia di Hollywood. Malgrado gli acciacchi dovuti alla sua veneranda età, il Liemba naviga ancora nel cuore dell’Africa. Ogni settimana fa la spola tra la città tanzaniana di Kigoma e Mpulungu, il porto zambiano all’estrema punta meridionale del Tanganica. Nei due giorni e mezzo di traversata fa scalo in una ventina di piccole località disseminate lungo la costa. Sono villaggi di pescatori, vecchie stazioni missionarie, ex covi di negrieri o commercianti d’avorio. Difficile distinguerli. Di tanto in tanto la foresta pluviale che accerchia il lago si apre e tra gli alberi carichi di liane compaiono grumi di capanne di paglia sperdute in mezzo al nulla. Nel buio della notte si vedono solo i falò sulle spiagge e le luci tremolanti delle lampare che fluttuano nell’acqua. Paesaggi fuori dal tempo che paiono usciti del romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad. «Le terre che attraversiamo sono governate ancora dalla magia», assicura un cameriere del ristorante di bordo, camicia candida, vezzoso papillon al collo, gilet nero come il caffè che serve a colazione. «Gli spiriti invisibili del lago possono scatenare furiose tempeste, guastare i motori della nave, provocare terribili epidemie a bordo… Guai a farli arrabbiare».
Fino a pochi anni fa, quando il battello passava nelle vicinanze dei monti Kaboko, il comandante ordinava di spegnere i motori: si diceva che da quelle parti si nascondesse un terribile mostro lacustre. «Tutti i passeggeri si riversavano sul ponte a pregare per scongiurare un attacco», ricorda il vecchio responsabile della cambusa. «Oggi invece tiriamo dritto senza neppure rallentare», aggiunge scuotendo la testa.

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Imprevisti a bordo
Il Liemba procede il suo viaggio a una velocità media di 10 nodi, circa 18 chilometri orari. Dietro di sé lascia una lunga scia nera. Il motore a vapore è stato sostituito nel 1970 da un diesel tedesco di cinquecento cavalli… molti dei quali paiono sfiancati dalla vecchiaia. «Da qualche tempo non è più lo stesso», ammette l’uomo che sorveglia la sala macchine, il volto imperlinato di sudore, la tuta lercia di grasso, i sandali immersi nei rivoli oleosi che scorrono sul pavimento. Un paio di pistoni sembrano ansimare mentre il macchinista grugnisce contro una valvola difettosa. «Potrebbero andare avanti ancora degli anni, ma sarebbe meglio non rischiare», avverte. Se dovessero fermarsi, sarebbe un disastro.
«La vita di decine di migliaia di persone dipende dal Liemba», ricorda il capitano Titus Benjamin, quarantadue anni, gli ultimi dieci passati al timone del battello. È un uomo massiccio dai modi gentili e pacati, che parla con un filo di voce. «Siamo l’ultimo collegamento esistente in una regione isolata dal resto del mondo. Garantiamo alla gente del lago le provviste, i commerci e le comunicazioni. Trasportiamo in ospedale i malati che necessitano di cure urgenti. E quando scoppia una guerra o una crisi umanitaria, in Burundi o nella Repubblica Democratica del Congo, ci prodighiamo per mettere in salvo migliaia di profughi. A costo di rischiare la nostra incolumità». Tempo fa il battello ha dovuto respingere l’attacco di una banda di banditi, più di recente è stato bersagliato dai proiettili di un gruppo di miliziani.
«Viaggiamo in una terra di nessuno a cavallo tra frontiere irrequiete», riflette il capitano che comanda un equipaggio di cinquantatré persone addestrate a gestire ogni tipo di emergenza. «Ci capita di dover sedare delle risse tra i passeggeri, ma anche di recuperare qualche ubriaco finito in acqua o di salvare dal linciaggio un ladro colto sul fatto… A volte dobbiamo assistere delle donne in travaglio: abbiamo già fatto nascere a bordo cinque bambini, l’ultima neonata è stata chiamata Liemba», racconta con fierezza.

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Uomini d’affari e turisti

Il battello brulica di vita. Sul ponte di prua la gente bivacca fra tappeti di sardine distese a seccare al sole. Una radio gracchia canzoni swahili. Due fedeli musulmani pregano in ginocchio sotto l’albero della nave che ricorda il minareto di una moschea turca. A poca distanza un pastore evangelico tiene un sermone dai toni apocalittici a un capannello di passeggeri persi in ben altri pensieri. Papy Okita, trafficante congolese di diamanti, ha l’aria preoccupata. «Mi sposto ogni mese col traghetto», racconta. «Il capo della polizia di frontiera è un amico fidato, ma in questi giorni si trova in congedo per problemi famigliari. E il suo vice è una carogna: pretenderà un sacco di soldi per lasciarmi passare». Rashidi Muyella, ingegnere civile tanzaniano, sta recandosi in un cantiere. «Sto costruendo un dispensario per una missione cristiana sul lago», spiega porgendomi il suo biglietto da visita. «I lavori si sono fermati perché è finito il cemento. Sul battello ne ho caricato mezza tonnellata». Saimon Kifunda, commerciante zambiano vestito da notabile, ha riempito la stiva di sacchi di pesce disidratato. «Lo compro dai pescatori sul lago e lo rivendo nel mio Paese, guadagno circa dieci euro a sacco». Gli uomini d’affari del Liemba viaggiano in cabine di prima classe dotate di lavabo, guardaroba, scrittoio e zanzariere alle finestre. «Il massimo del comfort: vanno prenotate con almeno una settimana di anticipo», avverte mister Mohamedi, inserviente di rango che distribuisce lenzuola inamidate ai facoltosi passeggeri del ponte principale. «A volte mi capita di servire dei ragazzotti europei in vacanza: gentaglia!», dice con aria sprezzante. «Nascondono rotoli di banconote nelle mutande, ma non scuciono mai la mancia». L’unico turista a bordo è un gigante biondo che girovaga sul ponte cercando di rintracciare la connessione satellitare per il suo smartphone. È un trentenne norvegese, sta girando l’Africa con la carta di credito del padre. «Ho pagato due biglietti in first class per non dover condividere la camera con qualche sconosciuto», spiega prima di rintanarsi nella sua cuccetta.

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In terza classe

Fortuna per lui che c’era posto, altrimenti sarebbe finito nel ponte inferiore. Lì si viaggia ammassati in spazi claustrofobici e maleodoranti tra caterve di passeggeri dall’aria incarognita. «La bolgia, il caldo, una birra di troppo: basta niente perché scoppi una zuffa», avverte Juma Ramadan, venditore di ananas, che ciondola sul battello con un vassoio di frutta succulenta. I passeggeri di terza classe stanno incastrati sottocoperta in un groviglio inestricabile di valigie e animali. Una mama straripante occupa un’intera panca di legno, ma nessuno osa protestare. «Se vuoi stravaccarti devi scendere giù», fa sapere, con tono perentorio, indicandomi una rampa di scale che sprofonda nelle viscere del battello. In fondo alla stiva c’è un tugurio buio senza oblò. L’aria è pesante come il piombo, da un tubo nero sgorgano zaffate di gasolio. Nugoli di donne e bambini schiantati dal caldo boccheggiano per terra. In un angolo alcuni ragazzotti piluccano un cartoccio pieno di pesciolini fritti e polenta di manioca. Sono burundesi, vanno a cercare fortuna nelle miniere di rame e di oro dello Shaba. «Adesso viaggiamo rintanati qui sotto, ma torneremo a casa ricchi sfondati», urla uno di loro, per superare il rumore del motore. E giù a tracannare un bidone di vino di palma. Il trambusto nella stiva si affievolisce quando il battello rallenta la sua corsa nei pressi di un villaggio. Le soste durano solo una manciata di minuti. Le piroghe che serpeggiano nervose attorno al traghetto afferrano al volo drappelli di persone stremate dal viaggio e scaraventano a bordo nuovi passeggeri. Ogni fermata è una baraonda di spinte, strattoni, litigi furiosi. Dal ponte di comando gli ufficiali del traghetto schiumano di rabbia e urlano nel vano tentativo di riportare l’ordine. Solo il fischio della sirena interrompe lo scompiglio. Una dopo l’altra, le piroghe si staccano dal battello e si allontanano verso riva. Svaniscono nel buio della notte, mentre l’ombra del Liemba riprende a scivolare silenziosa sulle acque scure del Tanganica

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